Newly rich Brazilians flood Manhattan's toniest shops
By Iuri Dantas and Fabiola Moura
(http://www.businessweek.com/magazine/content/10_33/b4191017664104.htm)
For a firsthand account of how Brazilians are changing New York shopping, talk to Ana Paula Galvani, a Portuguese-speaking saleswoman at the Sherry-Lehmann wine store on Park Avenue. Tourists from Brazil stop by daily and don't hesitate to buy $1,000 bottles. "I sold 30 cases of 2009 Bordeaux futures in the last two weeks," says Galvani, a native of Mirandópolis, in São Paulo state. "I sell a lot to Brazil." A 12-bottle case of 2009 Château Margaux Grand Cru Classe Premier costs $15,540 for delivery in 2012.
You could produce a good index of which countries fortune has smiled on by tracking the languages spoken in the aisles of Louis Vuitton on 57th and Fifth, the interior of the Apple (AAPL) store on Prince Street, and the lobby of the Jumeirah Essex hotel on Central Park South. The Japanese were once the shopping kings. Then the Koreans, the Chinese, and the Russians. Now Brazil's economy is experiencing its fastest growth in 15 years, and the currency has doubled against the dollar since 2003. Armed with high disposable income, Brazilians have descended on New York.
The Prada store in SoHo has at least three Portuguese speakers on staff to cater to Brazilians. David Wasserman, co-owner of Stereo Exchange on lower Broadway, just sold a $100,000 home theater system to a customer from São Paulo. "Brazil has really hit my radar screen," he says. In a country of more than 193 million people, the number of millionaires in 2009 jumped 19 percent, to 126,882, from 2008, according to data compiled by Boston Consulting Group.
About 359,000 Brazilian tourists traveled to New York last year, up 41 percent from 2007. American Airlines (AMR) is adding 11 flights a week between the U.S. and Brazil starting in November. Fashion stylist Patricia de Azevedo Camargo Araujo of Santos, Brazil, has traveled to New York at least five times in three years to freshen her wardrobe with the latest from Chanel, Prada, and Louis Vuitton. The city's stores offer a better variety than what's available in Brazil, says Araujo, 39, who was shopping with her husband and two teen-aged daughters at Prada on Broadway.
Brazilians are helping support sales as Americans cut spending, says Chris Adams, chief executive officer of Sherry-Lehmann. "New York buyers are still the foundation of our business. But to see, in a down economy, a three- to fourfold increase from a market is just fantastic." The Brazilian who spent $100,000 at Stereo Exchange bought, among other items, a pair of $15,000 Bowers & Wilkins speakers, a $15,000 Runco projector, an $8,000 McIntosh Blu-ray disc player, and $7,500 in Kimber cables and power cords, says Wasserman. "We designed the system for him strictly through e-mail exchanges. He wired $50,000 to us and came up later to go through a complete demonstration." That's serious shopping.
The bottom line: Brazilian shoppers are boosting the fortunes of luxury retailers in New York. They're affluent and have a strong currency.
Dantas is a reporter for Bloomberg News. Moura is a reporter for Bloomberg News.
quarta-feira, 18 de agosto de 2010
I nuovi milionari vengono dal Brasile
Por Rosaria Amato, do jornal italiano La Repubblica
(http://amato.blogautore.repubblica.it/2010/08/18/i-nuovi-milionari-vengono-dal-brasile/?ref=HROBA-1)
La crescita della Germania svetta nel grafico pubblicato oggi dall’Ocse, e nei giorni precedenti sulle pagine economiche il principale tema di dibattito è stato il ’sorpasso’ della Cina sul Giappone. Si parla poco però di un Paese non Ocse, e che però, come ha rilevato qualche giorno fa BusinessWeek in un articolo dal titolo “A New York Prada parla portoghese”, ha messo a segno negli ultimi mesi una crescita straordinaria. Tanto che, si legge nell’articolo, “in un Paese di oltre 193 milioni di persone, il numero di milionari nel 2009 è aumentato del 19%, raggiungendo il numero di 126.882, come attestato dal Boston Consulting Group”. Se ne sono accorti a New York, osserva il giornale, dove i nuovi milionari brasiliani fanno acquisti di tutto rispetto, al punto chei commessi stanno imparando rapidamente il portoghese.
In effetti la stessa Ocse, nonostante il Brasile non faccia parte dell’organizzazione, ha recentemente pubblicato un rapporto dal quale emerge che “l’economia brasiliana si sta espandendo con un ritmo vivace dalla metà del 2009, per via dell’espansione della domanda interna sostenuta da una massiccia politica di stimoli”. Una politica che l’Ocse suggerisce di moderare (peraltro il governo, rileva la stessa organizzazione, ha prudentemente annunciato un taglio della spesa pubblica per il 2010). Ma intanto il Pil crescerà del 6,5% nel 2010 e del 5% nel 2011, secondo le previsioni dell’organizzazione.
Anche il Fondo Monetario Internazionale il 5 agosto ha diffuso un rapporto che elogia la politica economica brasiliana, e fa previsioni molto rosee sulle prospettive del Paese. “Il Brasile ha recuperato sulla crisi globale prima e più velocemente delle altre categorie, e ha già registrato un anno intero di forte crescita”. L’FMI fa una stima ancora più ottimistica della crescita brasiliana per quest’anno, +7,1%. La domanda interna dovrebbe crescere, secondo il Fondo, del 9,1%. Che sia il momento anche per i commessi italiani, dopo quelli di New York, di imparare il portoghese?
(http://amato.blogautore.repubblica.it/2010/08/18/i-nuovi-milionari-vengono-dal-brasile/?ref=HROBA-1)
La crescita della Germania svetta nel grafico pubblicato oggi dall’Ocse, e nei giorni precedenti sulle pagine economiche il principale tema di dibattito è stato il ’sorpasso’ della Cina sul Giappone. Si parla poco però di un Paese non Ocse, e che però, come ha rilevato qualche giorno fa BusinessWeek in un articolo dal titolo “A New York Prada parla portoghese”, ha messo a segno negli ultimi mesi una crescita straordinaria. Tanto che, si legge nell’articolo, “in un Paese di oltre 193 milioni di persone, il numero di milionari nel 2009 è aumentato del 19%, raggiungendo il numero di 126.882, come attestato dal Boston Consulting Group”. Se ne sono accorti a New York, osserva il giornale, dove i nuovi milionari brasiliani fanno acquisti di tutto rispetto, al punto chei commessi stanno imparando rapidamente il portoghese.
In effetti la stessa Ocse, nonostante il Brasile non faccia parte dell’organizzazione, ha recentemente pubblicato un rapporto dal quale emerge che “l’economia brasiliana si sta espandendo con un ritmo vivace dalla metà del 2009, per via dell’espansione della domanda interna sostenuta da una massiccia politica di stimoli”. Una politica che l’Ocse suggerisce di moderare (peraltro il governo, rileva la stessa organizzazione, ha prudentemente annunciato un taglio della spesa pubblica per il 2010). Ma intanto il Pil crescerà del 6,5% nel 2010 e del 5% nel 2011, secondo le previsioni dell’organizzazione.
Anche il Fondo Monetario Internazionale il 5 agosto ha diffuso un rapporto che elogia la politica economica brasiliana, e fa previsioni molto rosee sulle prospettive del Paese. “Il Brasile ha recuperato sulla crisi globale prima e più velocemente delle altre categorie, e ha già registrato un anno intero di forte crescita”. L’FMI fa una stima ancora più ottimistica della crescita brasiliana per quest’anno, +7,1%. La domanda interna dovrebbe crescere, secondo il Fondo, del 9,1%. Che sia il momento anche per i commessi italiani, dopo quelli di New York, di imparare il portoghese?
segunda-feira, 16 de agosto de 2010
A guerra no Afeganistão: ecos do Vietnã
Por Noam Chomsky
O War Logs (bússolas da guerra), um arquivo de documentos militares confidenciais que abarcam seis anos da guerra do Afeganistão, publicados na internet pela organização Wikileaks relatam uma luta inflamada e cada dia mais encarniçada, na perspectiva dos Estados Unidos. E, para todos os afegãos, um horror crescente.
Os War Logs, por mais valiosos que sejam, podem contribuir para a doutrina prevalente de que as guerras são algo mau só se não são exitosas – algo assim como o que os nazis sentiram depois de Stalingrado.
No mês passado ocorreu o fiasco do general Stanley A. McChrystal, obrigado a se retirar do comando das forças dos Estados Unidos no Afeganistão e substituído por seu superior, o general David H. Petraeus. Uma provável consequência é um relaxamento das normas de combate, de forma que se torne mais fácil matar civis, e uma prolongamento da guerra à medida que Petraeus use sua influência para conseguir este resultado no Congresso.
O Afeganistão é a principal guerra em curso do presidente Obama. A meta oficial é nos proteger da AlQaeda, uma organização virtual, sem base específica – uma rede de redes e uma resistência sem líderes, como foi chamada na literatura profissional. Agora, ainda mais do que antes, a AlQaeda consiste em facções relativamente independentes, associadas frouxamente ao redor do mundo.
A CIA calcula que entre 50 e 100 ativistas da AlQaeda talvez estejam no Afeganistão, e nada indica que os talibãs desejem repetir o erro de dar refúgio a AlQaeda. Por outro lado, o talibã parece estar bem estabelecido em seu vasto e árduo território, uma grande parte dos territórios pashtun.
Em fevereiro, no primeiro exercício da nova estratégia de Obama, os fuzileiros estadunidenses conquistaram Marja, um distrito menor na província de Helmand, principal centro da insurgência.
Uma vez ali, informa Richard A. Oppel Jr., do The New York Times, “os fuzileiros se chocaram com uma identidade talibã tão dominante que o movimento se assemelha mais a uma organização política numa região de um só partido, com uma influência que abarca a todos...”.
“Temos que reavaliar nossa definição da palavra 'inimigo', disse o general de brigada Larry Nicholson, comandante da brigada expedicionária de fuzileiros na província Helmand. A maioria das pessoas aqui identifica a si mesmas como talibã... Temos que reajustar nossa forma de pensar, de forma que não pareça que estamos expulsando os talibãs de Marja, mas que estejamos tratando de expulsar o inimigo.
Os fuzileiros estão enfrentando um problema que sempre espreitou os conquistadores, e que é muito familiar para os Estados Unidos, desde o Vietnã. Em 1969, Douglas Pike, o mais importante acadêmico governamental nos assuntos do Vietnã lamentou que o inimigo – a Frente de Libertação Nacional (FLN) – era o único partido político verdadeiramente baseado nas massas no Vietnã do Sul”.
Qualquer esforço para competir politicamente com esse inimigo seria como um conflito entre uma sardinha e uma baleia, reconheceu Pike. Em consequência, devíamos superar a força política do FLN recorrendo a nossa vantagem comparativa, a violência – com resultados horrendos.
Outros enfrentaram problemas similares: os russos, por exemplo, no Afeganistão, durante os anos 80, quando ganharam todas as batalhas mas perderam a guerra.
Escrevendo a respeito de outra invasão estadunidense – a das Filipinas em 1989 -, Bruce Cumings, historiador especialista em Ásia na Universidade de Chicago fez uma observação hoje aplicável ao Afeganistão: “quando um fuzileiro vê que sua rota é desastrosa, muda de curso, mas os exércitos imperiais afundam suas botas em areias movediças e seguem marchando, ainda que seja em círculos, enquanto os políticos enfeitam o livro de frases dos ideais estadunidenses”.
Depois do triunfo de Marja, esperava-se que as forças lideradas pelos Estados Unidos atacariam a importante cidade de Kandahar, onde, segundo uma pesquisa do exército estadunidense, a operação militar é rechaçada por 95% da população e onde 5 em cada 6 consideram os talibãs como nossos irmãos afegãos – mais uma vez, ecos de conquistas prévias. Os planos sobre Kandahar foram postergados, e isso foi parte dos antecedentes para a saída de McChrystal.
Dadas essas circunstâncias não é de se estranhar que as autoridades dos Estados Unidos estejam preocupadas com que o apoio popular à guerra no Afeganistão seja ainda mais erodido. Em maio passado a Wikileaks publicou um memorando da CIA acerca de como manter o apoio da Europa à guerra: o subtítulo do memorando era: porque contar com a apatia talvez não seja suficiente.
O perfil discreto da missão no Afeganistão permitiu aos líderes franceses e alemães desprezarem a oposição popular e aumentarem gradualmente suas contribuições às tropas da Força de Assistência à Segurança Nacional (ISAF), assinala o memorando. Berlim e Paris mantêm o terceiro e quarto níveis mais altos de tropas na ISAF, em que pese a oposição de 80% dos pesquisados alemães e franceses a maiores envios de forças. É necessário, em consequência, dissimular as mensagens para impedir ou ao menos conter uma reação negativa.
O memorando da CIA deve nos fazer recordar que os Estados têm um inimigo interno: sua própria população, que deve ser controlada quando a política do Estado tem oposição no povo. As sociedades democráticas dependem não da força, mas da propaganda, manipulando o consenso mediante uma ilusão necessária e uma super-simplificação emocionalmente poderosa, para citar o filósofo favorito de Obama, Reinhold Niebuhr.
A batalha para controlar o inimigo interno, então, segue sendo altamente pertinente – de fato, o futuro da guerra no Afeganistão pode depender dela.
Tradução: Katarina Peixoto
O War Logs (bússolas da guerra), um arquivo de documentos militares confidenciais que abarcam seis anos da guerra do Afeganistão, publicados na internet pela organização Wikileaks relatam uma luta inflamada e cada dia mais encarniçada, na perspectiva dos Estados Unidos. E, para todos os afegãos, um horror crescente.
Os War Logs, por mais valiosos que sejam, podem contribuir para a doutrina prevalente de que as guerras são algo mau só se não são exitosas – algo assim como o que os nazis sentiram depois de Stalingrado.
No mês passado ocorreu o fiasco do general Stanley A. McChrystal, obrigado a se retirar do comando das forças dos Estados Unidos no Afeganistão e substituído por seu superior, o general David H. Petraeus. Uma provável consequência é um relaxamento das normas de combate, de forma que se torne mais fácil matar civis, e uma prolongamento da guerra à medida que Petraeus use sua influência para conseguir este resultado no Congresso.
O Afeganistão é a principal guerra em curso do presidente Obama. A meta oficial é nos proteger da AlQaeda, uma organização virtual, sem base específica – uma rede de redes e uma resistência sem líderes, como foi chamada na literatura profissional. Agora, ainda mais do que antes, a AlQaeda consiste em facções relativamente independentes, associadas frouxamente ao redor do mundo.
A CIA calcula que entre 50 e 100 ativistas da AlQaeda talvez estejam no Afeganistão, e nada indica que os talibãs desejem repetir o erro de dar refúgio a AlQaeda. Por outro lado, o talibã parece estar bem estabelecido em seu vasto e árduo território, uma grande parte dos territórios pashtun.
Em fevereiro, no primeiro exercício da nova estratégia de Obama, os fuzileiros estadunidenses conquistaram Marja, um distrito menor na província de Helmand, principal centro da insurgência.
Uma vez ali, informa Richard A. Oppel Jr., do The New York Times, “os fuzileiros se chocaram com uma identidade talibã tão dominante que o movimento se assemelha mais a uma organização política numa região de um só partido, com uma influência que abarca a todos...”.
“Temos que reavaliar nossa definição da palavra 'inimigo', disse o general de brigada Larry Nicholson, comandante da brigada expedicionária de fuzileiros na província Helmand. A maioria das pessoas aqui identifica a si mesmas como talibã... Temos que reajustar nossa forma de pensar, de forma que não pareça que estamos expulsando os talibãs de Marja, mas que estejamos tratando de expulsar o inimigo.
Os fuzileiros estão enfrentando um problema que sempre espreitou os conquistadores, e que é muito familiar para os Estados Unidos, desde o Vietnã. Em 1969, Douglas Pike, o mais importante acadêmico governamental nos assuntos do Vietnã lamentou que o inimigo – a Frente de Libertação Nacional (FLN) – era o único partido político verdadeiramente baseado nas massas no Vietnã do Sul”.
Qualquer esforço para competir politicamente com esse inimigo seria como um conflito entre uma sardinha e uma baleia, reconheceu Pike. Em consequência, devíamos superar a força política do FLN recorrendo a nossa vantagem comparativa, a violência – com resultados horrendos.
Outros enfrentaram problemas similares: os russos, por exemplo, no Afeganistão, durante os anos 80, quando ganharam todas as batalhas mas perderam a guerra.
Escrevendo a respeito de outra invasão estadunidense – a das Filipinas em 1989 -, Bruce Cumings, historiador especialista em Ásia na Universidade de Chicago fez uma observação hoje aplicável ao Afeganistão: “quando um fuzileiro vê que sua rota é desastrosa, muda de curso, mas os exércitos imperiais afundam suas botas em areias movediças e seguem marchando, ainda que seja em círculos, enquanto os políticos enfeitam o livro de frases dos ideais estadunidenses”.
Depois do triunfo de Marja, esperava-se que as forças lideradas pelos Estados Unidos atacariam a importante cidade de Kandahar, onde, segundo uma pesquisa do exército estadunidense, a operação militar é rechaçada por 95% da população e onde 5 em cada 6 consideram os talibãs como nossos irmãos afegãos – mais uma vez, ecos de conquistas prévias. Os planos sobre Kandahar foram postergados, e isso foi parte dos antecedentes para a saída de McChrystal.
Dadas essas circunstâncias não é de se estranhar que as autoridades dos Estados Unidos estejam preocupadas com que o apoio popular à guerra no Afeganistão seja ainda mais erodido. Em maio passado a Wikileaks publicou um memorando da CIA acerca de como manter o apoio da Europa à guerra: o subtítulo do memorando era: porque contar com a apatia talvez não seja suficiente.
O perfil discreto da missão no Afeganistão permitiu aos líderes franceses e alemães desprezarem a oposição popular e aumentarem gradualmente suas contribuições às tropas da Força de Assistência à Segurança Nacional (ISAF), assinala o memorando. Berlim e Paris mantêm o terceiro e quarto níveis mais altos de tropas na ISAF, em que pese a oposição de 80% dos pesquisados alemães e franceses a maiores envios de forças. É necessário, em consequência, dissimular as mensagens para impedir ou ao menos conter uma reação negativa.
O memorando da CIA deve nos fazer recordar que os Estados têm um inimigo interno: sua própria população, que deve ser controlada quando a política do Estado tem oposição no povo. As sociedades democráticas dependem não da força, mas da propaganda, manipulando o consenso mediante uma ilusão necessária e uma super-simplificação emocionalmente poderosa, para citar o filósofo favorito de Obama, Reinhold Niebuhr.
A batalha para controlar o inimigo interno, então, segue sendo altamente pertinente – de fato, o futuro da guerra no Afeganistão pode depender dela.
Tradução: Katarina Peixoto
segunda-feira, 9 de agosto de 2010
O escândalo Lula
Por Emir Sader
Quem olhasse para o Brasil através da imprensa, não conseguiria entender a popularidade do Lula. Foi o que constatou o ex-presidente português Mario Soares, que a essa dicotomia soma a projeção internacional extraordinária do Lula e do Brasil no governo atual e não conseguia entender como a imprensa brasileira não reflete, nem essa imagem internacional, nem o formidável e inédito apoio interno do Lula.
Acontece que Lula não se subordinou ao que as elites tradicionais acreditavam reservar para ele: que fosse eternamente um opositor denuncista, sem capacidade de agregar, de fazer alianças, se construir uma força hegemônica no país. Ficaria ali, isolado, rejeitado, até mesmo como prova da existência de uma oposição – incapaz de deixar de sê-lo.
Quando Lula contornou isso, constituiu um arco de alianças majoritário e triunfou, lhe reservavam o fracasso: ataque especulativo, fuga de capitais, onda de reivindicações, descontrole inflacionário, que levasse a população a suplicar pela volta dos tucanos-pefelistas, enterrando definitivamente a esquerda no Brasil por vinte anos.
Lula contornou esse problema. Aí o medo era de que permanecesse muito tempo, se consolidasse. Reservaram-lhe então o papel de “presidente corrupto”, vitima de campanhas orquestradas pela mídia privada – como em 1964 -, a partir de movimentos como o “Cansei”. Ou o derrubariam por impeachment ou supunham que ele pudesse capitular, não se candidatando de novo, ou que fosse, sangrado pela oposição, ser derrotado nas eleições de 2006. Tinham lhe reservado o destino do presidente solitário no poder, isolado do povo, rejeitado pelos “formadores de opinião”, vitima de mais um desses movimentos que escolhem cores para exibir repudio a governos antidemocráticos e antipopulares.
Lula superou esses obstáculos, conquistou popularidade que nenhum governante tinha conseguido, o povo o apóia. Mas nenhum espaço da mídia expressa esse sentimento popular – o mais difundido no país. O povo não ouve discursos do Lula na televisão, nem no rádio, nem os pode ler nos jornais. Lula não pode falar ao povo, sem a intermediação da mídia privada, que escolhe o que deseja fazer chegar à população. Nunca publica um discurso integral do presidente da republica mais popular que o Brasil já teve. Ao contrário, se opõem frenética e sistematicamente a ele, conquistando e expressando os 3% da população que o rejeita, contra os 82% que o apóiam.
Talvez nada reflita melhor a distância e a contraposição entre os dois países que convivem, um ao lado do outro. Revela como, apesar da moderação do seu governo, sua imagem, sua trajetória, o que ele representa para o povo brasileiro, é algo inassimilável para as elites tradicionais. Essa mesma elite que tinha uma imensa e variada equipe de apologetas de Collor e de FHC, não tolera o fracasso deles e o sucesso nacional e internacional, político e de massas, de um imigrante nordestino, que perdeu um dedo na máquina, como torneiro mecânico, dirigente sindical e um Partido dos Trabalhadores, que não aceitou a capitulação ou a derrota.
Lula é o melhor fenômeno para entender o que é o Brasil hoje, em todas as posições da estrutura social, em todas as dimensões da nossa história. Quase se pode dizer: diga-me o que você acha do Lula e eu te direi quem és.
(Do Blog do Emir: http://www.cartamaior.com.br/templates/postMostrar.cfm?blog_id=1&post_id=515 )
Quem olhasse para o Brasil através da imprensa, não conseguiria entender a popularidade do Lula. Foi o que constatou o ex-presidente português Mario Soares, que a essa dicotomia soma a projeção internacional extraordinária do Lula e do Brasil no governo atual e não conseguia entender como a imprensa brasileira não reflete, nem essa imagem internacional, nem o formidável e inédito apoio interno do Lula.
Acontece que Lula não se subordinou ao que as elites tradicionais acreditavam reservar para ele: que fosse eternamente um opositor denuncista, sem capacidade de agregar, de fazer alianças, se construir uma força hegemônica no país. Ficaria ali, isolado, rejeitado, até mesmo como prova da existência de uma oposição – incapaz de deixar de sê-lo.
Quando Lula contornou isso, constituiu um arco de alianças majoritário e triunfou, lhe reservavam o fracasso: ataque especulativo, fuga de capitais, onda de reivindicações, descontrole inflacionário, que levasse a população a suplicar pela volta dos tucanos-pefelistas, enterrando definitivamente a esquerda no Brasil por vinte anos.
Lula contornou esse problema. Aí o medo era de que permanecesse muito tempo, se consolidasse. Reservaram-lhe então o papel de “presidente corrupto”, vitima de campanhas orquestradas pela mídia privada – como em 1964 -, a partir de movimentos como o “Cansei”. Ou o derrubariam por impeachment ou supunham que ele pudesse capitular, não se candidatando de novo, ou que fosse, sangrado pela oposição, ser derrotado nas eleições de 2006. Tinham lhe reservado o destino do presidente solitário no poder, isolado do povo, rejeitado pelos “formadores de opinião”, vitima de mais um desses movimentos que escolhem cores para exibir repudio a governos antidemocráticos e antipopulares.
Lula superou esses obstáculos, conquistou popularidade que nenhum governante tinha conseguido, o povo o apóia. Mas nenhum espaço da mídia expressa esse sentimento popular – o mais difundido no país. O povo não ouve discursos do Lula na televisão, nem no rádio, nem os pode ler nos jornais. Lula não pode falar ao povo, sem a intermediação da mídia privada, que escolhe o que deseja fazer chegar à população. Nunca publica um discurso integral do presidente da republica mais popular que o Brasil já teve. Ao contrário, se opõem frenética e sistematicamente a ele, conquistando e expressando os 3% da população que o rejeita, contra os 82% que o apóiam.
Talvez nada reflita melhor a distância e a contraposição entre os dois países que convivem, um ao lado do outro. Revela como, apesar da moderação do seu governo, sua imagem, sua trajetória, o que ele representa para o povo brasileiro, é algo inassimilável para as elites tradicionais. Essa mesma elite que tinha uma imensa e variada equipe de apologetas de Collor e de FHC, não tolera o fracasso deles e o sucesso nacional e internacional, político e de massas, de um imigrante nordestino, que perdeu um dedo na máquina, como torneiro mecânico, dirigente sindical e um Partido dos Trabalhadores, que não aceitou a capitulação ou a derrota.
Lula é o melhor fenômeno para entender o que é o Brasil hoje, em todas as posições da estrutura social, em todas as dimensões da nossa história. Quase se pode dizer: diga-me o que você acha do Lula e eu te direi quem és.
(Do Blog do Emir: http://www.cartamaior.com.br/templates/postMostrar.cfm?blog_id=1&post_id=515 )
O fortalecimento da mídia progressista no Brasil
Redação - Carta Maior
O 1° Encontro Nacional de Blogueiros Progressistas, que será realizado de 20 a 22 de agosto, em São Paulo, representa mais um passo importante na luta pela construção de um sistema democrático de comunicação no Brasil. Até o dia 2 de agosto, mais de 200 pessoas já tinham se inscrito para participar do encontro que conta com o apoio do Centro de Estudos da Mídia Alternativa Barão de Itararé, da Associação Brasileira de Empresas e Empreendedores da Comunicação (Altercom) e do Movimento dos Sem Mídia (MSM).
A Carta Maior saúda e apóia a iniciativa do evento e destaca o acúmulo que vem sendo construído nos últimos anos na direção do fortalecimento das mídias alternativas no Brasil. Vale a pena fazer uma rápida retrospectiva desse processo.
Em março de 2008, um encontro realizado em São Paulo reuniu 42 jornalistas, estudantes, professores e outras pessoas que atuam na área da comunicação, de diferentes regiões do país. Entre outras questões, discutiu-se o avanço do movimento de comunicação da mídia alternativa em todo o país. Nascia ali a idéia de realizar um encontro nacional para aprofundar esse debate. Após uma série de reuniões e articulações regionais, em junho do mesmo ano foi realizado no Rio de Janeiro o 1° Fórum de Mídia Livre. O encontro que teve lugar no campus da Universidade Federal do Rio de Janeiro reuniu cerca de 500 ativistas de vários estados, confirmando a crescente rejeição à ditadura dos grandes meios de comunicação e a existência de ricas experiências alternativas e independentes em todo o país.
De lá para cá, essa articulação só se fortaleceu. No final de 2009, a realização da 1ª Conferência Nacional de Comunicação (Confecom) deu concretude e forma política às articulações que vinham sendo construídas no setor. Entendendo que seus interesses não são representados ou defendidos pelas associações atualmente existentes, pequenos e médios empresários e empreendedores de mídia (revistas, jornais, livros, sites e blogs) começaram a debater a idéia de criar sua própria entidade. Após uma série de encontros e reuniões preparatórias, um seminário realizado dia 27 de fevereiro de 2010, em São Paulo, definiu a criação da Associação Brasileira de Empresas e Empreendedores de Comunicação (Altercom).
A nova entidade nasceu com o objetivo de defender interesses políticos e econômicos das empresas e empreendedores de comunicação comprometidos com os princípios da democratização do acesso à comunicação, da pluralidade e da liberdade de expressão. Quanto mais proprietários e empreendimentos de comunicação houver no país, maior será a liberdade de expressão: essa é uma das idéias centrais que animou a criação da Altercom, que propõe também a adoção de critérios mais transparentes e democráticos na aplicação de verbas públicas em publicidade.
As agendas de todas essas iniciativas se cruzam e são articuladas por um fio condutor comum: a compreensão de que a maioria da população brasileira não tem respeitado hoje o direito à uma informação de qualidade. O 1° Encontro Nacional de Blogueiros Progressistas será mais uma oportunidade para fazer essa luta avançar.
(Do Carta Maior: http://www.cartamaior.com.br/templates/materiaMostrar.cfm?materia_id=16848 )
O 1° Encontro Nacional de Blogueiros Progressistas, que será realizado de 20 a 22 de agosto, em São Paulo, representa mais um passo importante na luta pela construção de um sistema democrático de comunicação no Brasil. Até o dia 2 de agosto, mais de 200 pessoas já tinham se inscrito para participar do encontro que conta com o apoio do Centro de Estudos da Mídia Alternativa Barão de Itararé, da Associação Brasileira de Empresas e Empreendedores da Comunicação (Altercom) e do Movimento dos Sem Mídia (MSM).
A Carta Maior saúda e apóia a iniciativa do evento e destaca o acúmulo que vem sendo construído nos últimos anos na direção do fortalecimento das mídias alternativas no Brasil. Vale a pena fazer uma rápida retrospectiva desse processo.
Em março de 2008, um encontro realizado em São Paulo reuniu 42 jornalistas, estudantes, professores e outras pessoas que atuam na área da comunicação, de diferentes regiões do país. Entre outras questões, discutiu-se o avanço do movimento de comunicação da mídia alternativa em todo o país. Nascia ali a idéia de realizar um encontro nacional para aprofundar esse debate. Após uma série de reuniões e articulações regionais, em junho do mesmo ano foi realizado no Rio de Janeiro o 1° Fórum de Mídia Livre. O encontro que teve lugar no campus da Universidade Federal do Rio de Janeiro reuniu cerca de 500 ativistas de vários estados, confirmando a crescente rejeição à ditadura dos grandes meios de comunicação e a existência de ricas experiências alternativas e independentes em todo o país.
De lá para cá, essa articulação só se fortaleceu. No final de 2009, a realização da 1ª Conferência Nacional de Comunicação (Confecom) deu concretude e forma política às articulações que vinham sendo construídas no setor. Entendendo que seus interesses não são representados ou defendidos pelas associações atualmente existentes, pequenos e médios empresários e empreendedores de mídia (revistas, jornais, livros, sites e blogs) começaram a debater a idéia de criar sua própria entidade. Após uma série de encontros e reuniões preparatórias, um seminário realizado dia 27 de fevereiro de 2010, em São Paulo, definiu a criação da Associação Brasileira de Empresas e Empreendedores de Comunicação (Altercom).
A nova entidade nasceu com o objetivo de defender interesses políticos e econômicos das empresas e empreendedores de comunicação comprometidos com os princípios da democratização do acesso à comunicação, da pluralidade e da liberdade de expressão. Quanto mais proprietários e empreendimentos de comunicação houver no país, maior será a liberdade de expressão: essa é uma das idéias centrais que animou a criação da Altercom, que propõe também a adoção de critérios mais transparentes e democráticos na aplicação de verbas públicas em publicidade.
As agendas de todas essas iniciativas se cruzam e são articuladas por um fio condutor comum: a compreensão de que a maioria da população brasileira não tem respeitado hoje o direito à uma informação de qualidade. O 1° Encontro Nacional de Blogueiros Progressistas será mais uma oportunidade para fazer essa luta avançar.
(Do Carta Maior: http://www.cartamaior.com.br/templates/materiaMostrar.cfm?materia_id=16848 )
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